Ripercorrere strade, luoghi, ricordi. Ricostruire memorie, pensieri, storie. Vivere il proprio quartiere, scoprirne la bellezza, sentirsi parte di esso, ritrovare una “normalità”. Un lavoro iniziato un anno fa, proposto ad un gruppo di adolescenti e alle scuole elementari e medie di Scampia; proposta accettata, discussa, rielaborata, ognuno con i propri strumenti e con la propria complessità. Il tentativo di uscire da se stessi e dall’immagine che ultimamente gli eventi e il mondo mediatico hanno imposto all’opinione pubblica, e contemporaneamente uno sforzo per ricollocarsi e ritrovarsi in un luogo che pare non avere una precisa identità, comunemente percepito come terra di nessuno, deserto urbano, scenario di macabre e inaudite violenze, mercato indisturbato della grande criminalità, all’ombra di una minacciosa e imponente edilizia popolare. Un viaggio, alla ricerca delle proprie radici passate e future, e per la trasformazione visiva ed emotiva di questo spazio vivo, vitale, vivido, che non è solo una periferia degradata, e che non esiste solo in quanto fonte inesauribile di osceni scoop televisivi. E le indagini, le inchieste sociali, le ricostruzioni, gli eventi, sono stati condotti e vissuti per una volta in prima persona da chi questo spazio lo abita, lo conosce, e prova a comprenderlo. La parola è passata da subito ai ragazzi, gli unici possibili artefici e protagonisti del proprio possibile e futuro cambiamento, in risposta a tutti i vani piani pseudo-educativi e assistenzialisti che la società e le istituzioni pubbliche si sforzano, talvolta, di applicare.
La scoperta dell’altro, ovvero storia di una passione comune
Scampia è divisa in rioni o lotti, anonimamente contrassegnati da lettere (Lotto A, G, S…), collegati da dispersivi stradoni che spesso non hanno un nome, e che non sono facili da percorrere a piedi (ma per andare dove poi), poiché la segnaletica è spesso inesistente. La vita di strada, così comunemente napoletana, si rinchiude e si contrae in questi isolotti, e non è favorita da alcuno spazio aggregativo (piazze, bar, mercati); gli unici punti di ritrovo sono, di fatto, le cosiddette agenzie territoriali o presidi istituzionali (chiesa, scuola) che di volta in volta rispondono a varie esigenze oltre a quella propria, e diventano così palestre, laboratori, sale polifunzionali. Per estendere le proprie relazioni sociali spesso bisogna spostarsi in altre zone della città, che tuttavia si possono raggiungere con autobus o grazie a una funzionale metropolitana. La mancanza di tali spazi vitali, é il frutto di un disegno urbanistico piuttosto limitato e poco attento, evidentemente, al bisogno tipicamente umano di relazionarsi con gli altri, ci si è concentrati solo sulla creazione di enormi edifici dormitorio, il resto è stato ritenuto superfluo.
Uno di questi rioni, un lotto, confina con un campo rom “abusivo”, che occupa un’area dimenticata dall’ establishment politico, ai margini della città, ma non troppo, sotto un’arteria stradale che dovrebbe mettere in comunicazione Napoli con l’hinterland, chiamata asse mediano, che però non è mai stata completata. L’insediamento risale a parecchi anni fa, e numerose famiglie vivono in condizioni che definire precarie sarebbe insufficiente per rendere l’idea della situazione: senza acqua, senza luce, senza servizi igienici. Baracche di nome e di fatto, circondate spesso da cumuli di spazzatura anche di produzione esterna, che l’impresa cittadina che si dedica alla rimozione di rifiuti, decide in maniera assolutamente arbitraria quando e se prelevare, e proprio recentemente solo dopo aver ottenuto un finanziamento straordinario di migliaia di euro. Eppure, come già detto, la zona non è del tutto invisibile e marginale, confina anche con una scuola elementare, oltre che con quel lotto.
E’ molto difficile però la comunicazione fra i due microcosmi, vicini di casa, sì, ma non necessariamente simili. Bambini, adolescenti, adulti, allo stesso modo, ma le diffidenze sono molte, e apparentemente anche le differenze. Certo differenza di abitazioni, gli uni nelle case, gli altri nelle baracche, gli uni con l’acqua calda, gli altri costretti a stratagemmi per avere l’elettricità, differenza di abitudini, di lingua, di abbigliamento…napoletani e rom, due culture a confronto, un confronto molto ravvicinato e quotidiano, che non sempre riesce a diventare incontro, i pregiudizi e la non conoscenza, si sa, rendono ciechi e ostili. Eppure, queste due comunità condividono lo stesso territorio, le stesse scuole, le stesse strade, gli stessi momenti difficili, la stessa storia, passata e presente. Sono entrambe comunità migranti: Scampia è un quartiere giovane, recente, alcuni abitanti provengono dalla Macedonia, dalla Serbia, altri dai quartieri del centro di Napoli, ma i ricordi di ognuno in questo luogo risalgono a un passato molto recente, e la costruzione di un’identità precisa è un processo tutt’ora in corso. Questo compito, è affidato ai giovani e giovanissimi, che invece sono nati a Scampia, rom e napoletani, che non corrispondono affatto, né si riconoscono, con i luoghi comuni con cui vengono bollati e inquadrati.
Un gruppo di adolescenti del campo rom e del lotto confinante, insieme, hanno dato vita a un percorso di vera e propria cittadinanza attiva, dimostrando di poter ribaltare la situazione e riuscendo a stabilire relazioni durature e profonde. Prima non si conoscevano molto, forse non avrebbero mai pensato di trascorrere intere giornate insieme, di scambiarsi opinioni; i napoletani non avrebbero mai pensato di poter andare a trovare i loro coetanei nelle loro baracche, di visitare le loro case, di intervistare i nonni e le madri, di rendersi conto che se non si lavano molto è perché l’acqua corrente non è sempre un diritto di tutti, di riconoscersi negli atteggiamenti e nelle paure, comuni a tutti gli adolescenti, anche se questi (sia i napoletani che i rom) crescono piuttosto in fretta. E d’altra parte, di uscire dal quel lotto, incastrato in buona parte dai movimenti dello spaccio di droga, viavai di tossicodipendenti, di sfidare le strade anonime del quartiere, tutti insieme, per fare passeggiate che in altri zone sono del tutto normali, e che anche qui possono e devono esserlo. Macchine fotografiche e videocamere alla mano, hanno esplorato il territorio, il loro territorio, riappropriandosene, scoprendo punti, angoli, panorami, una natura rigogliosa, e il piacere di percorrere questi spazi e di descriverli con strumenti creativi eppure semplici. Un’inquadratura, un’angolazione, un soggetto o vari, uno sfondo, e ripetuti e molteplici scatti e riprese, un apprendimento graduale ma molto istintivo e quasi naturale. Pensare a un’immagine e vederla poi stampata e dunque concreta, riconoscersi, imbarazzarsi ma poi un po’ vantarsi del proprio inaspettato lavoro, che racconta dall’interno e con cognizione di causa ciò che ogni giorno si sfiora appena con lo sguardo. E di nuovo gradualmente ma naturalmente, durante questi incontri, la scoperta di una passione comune, portata avanti in maniera differente, ma con uguale entusiasmo: la danza, il ballo, espressione corporea irrefrenabile, impulsiva, quotidiana. Nel lotto, uno dei ragazzi, da un po’ di tempo organizza e gestisce una scuola di ballo in uno spazio “arrangiato” ma fornito delle cose essenziali: stereo, casse, musica latinoamericana e uno specchio. La scuola è rivolta a una marea di piccoli allievi che il giovane maestro segue con dedizione, curando tutti i minimi particolari, ricambiato dalla loro continuità e ammirazione. Un’altra ragazza, a volte è presente, ma segue in altri modi la sua vocazione. Nel campo rom, i ragazzi si esercitano preferendo la break-dance e l’hip hop, le ragazze le loro musiche arabeggianti. Si sono incontrati su queste basi, hanno lavorato sulle differenze e sulle somiglianze, alcuni hanno appreso passi nuovi da altri, hanno provato e riprovato in strada, nella villa comunale, in un centro sociale poco distante, e insieme hanno dato vita a vari spettacoli rivolti al quartiere, alle loro famiglie, alla città. Per tre giorni, durante una mostra del loro lavoro di un anno, le fotografie e il video-documentario, in una villa comunale finalmente piena, viva, grande contenitore e spazio espositivo anche delle 35 grandi cartine del quartiere su cui hanno lavorato le sette scuole di Scampia. In un clima di pace ed entusiasmo, si sono esibiti in danze emozionanti, e hanno riunito gli abitanti del quartiere, rom e napoletani, fianco a fianco, che hanno vissuto momenti di gioia, di divertimento, momenti straordinari, ma che si costruiscono giorno per giorno, e che racchiudono storie di ordinaria e quotidiana lotta umana per una vita dignitosa ma anche tremendamente esplosiva ed emozionante.